Le valigie della Storia e’ un film autobiografico prodotto e distribuito da Fondo Piperno Faccini. Interpretato da: Marina Piperno
Regia: Luigi Monardo Faccini
Musiche: Oliviero Lacagnina
Montaggio: Alessandro Mazzucca.
Durata 72′
Le valigie di Marina
di Cristina Jandelli (Università degli Studi di Firenze)
Nel 2023 Marina Piperno, la più importante produttrice cinematografica indipendente italiana attiva dagli anni Sessanta, dà alle stampe una monumentale autobiografia (Eppure qualcosa ho visto sotto il sole, Roma, All Around) densa di memorie corredate da un ingente corpus fotografico che attinge ai repertori dei professionisti ma anche a numerosi archivi di famiglia. La storia raccontata nel libro in larga misura scaturisce dalle immagini, prende vita con un omaggio al padre Simone per immergersi nella visione di uno «strabiliante reperto cinematografico sepolto nell’immenso archivio (…) emerso poco tempo fa durante una casuale “pulizia della soffitta”» (p.17). Dunque era virtualmente già presente nell’autobiografia edita il film, suo e dell’inseparabile marito, il regista Luigi Faccini, Le valigie della storia, che quei preziosi reperti, una serie di bobine Pathé Baby di nove millimetri e mezzo con perforazione centrale, mostra insieme a numerosissime altre immagini, fisse e in movimento. Ogni contributo è utilizzato liberamente per illustrare nascita, infanzia, vita adulta e presente di Marina Piperno. Non a caso nei titoli di coda si legge che Le valigie della storia «è frutto di una serie di film» da lei prodotti: La Razzia – 16 ottobre 1943 (Giannarelli 1961), Storia di una donna amata e di un assassino gentile (Faccini 2009), Rudolf Jacobs, l’uomo che nacque morendo (Faccini 2011) e Diaspora, ogni fine è un inizio (Faccini 2017). Un rilievo speciale vi assume un drammatico segmento prelevato da uno dei Cinegiornali della
Pace di Cesare Zavattini, Marzabotto, vent’anni dopo (1963), «organizzato da Marina Piperno».
Nel 1982 lei aveva prodotto il primo film da regista di Zavattini, La veritàaaa, dove il più illustre sceneggiatore e teorico del Neorealismo appariva nelle vesti di attore per interpretare i suoi pensieri, dialoghi e aforismi densi di umorismo, appesi al filo di antiche e nuove riflessioni sul mondo. In qualche modo Le valigie della storia sono le “veritàaa” di Marina Piperno, ma anche una sua personale forma di cinécriture (cinescrittura), termine coniato da Agnès Varda per definire un modo di fare film che trova piena espressione nel suo autoritratto cinematografico Le plages d’Agnès (2006). Come prima di lei Zavattini e Varda, Piperno si mette in scena, si lascia scrutare dalla videocamera del marito lungo un racconto innervato dalle espressioni illuminanti del suo volto, dai movimenti del corpo di un’indomabile ottantanovenne insediati al centro esatto della narrazione filmica.
Questa personalissima autofiction per immagini comincia da una visita deludente al cimitero ebraico di Roma dove il sincretismo dei monumenti funebri viene da lei interpretato come segno tangibile dell’assimilazione. È così lanciato il tema, la ricostruzione della storia e della cultura della comunità ebraica italiana che ha innervato la carriera artistica di Marina Piperno fin dai suoi esordi (il documentario di Giannarelli raccontava il rastrellamento del ghetto di Roma sulla scorta del romanzo di Giacomo Debenedetti da cui la produttrice era rimasta folgorata). Le valigie della storia è dedicato a Simone Piperno, il padre che ha lasciato i suoi figli all’oscuro e quasi al riparo dalla propria formazione religiosa, come fa il protagonista del romanzo Ombre sullo Hudson di Isaac Singer. La figlia di Simone riannoda i fili del proprio passato e si congeda, nei titoli di coda, con una «raccomandazione amichevole»: «Versate la memoria nella Storia che l’ha generata.
Senza questo nutrimento causale ogni memoria resterà un aneddoto». È questo dunque il metodo utilizzato da Piperno e Faccini nel trasmettere i ricordi della produttrice. Ogni tappa è scandita da documenti, testimonianze, racconti, perfino storie di altre persone, come quella di Rudolf Jacobs, il capitano nazista che disertò, combatté e morì insieme ai partigiani di Sarzana durante la seconda guerra mondiale. La protagonista mostra il matrimonio dei genitori, mette la mano dentro il vestito della sposa accuratamente conservato per “sentire” sua madre e contemporaneamente evidenzia il ruolo degli ebrei antifascisti (Carlo Levi, Giacomo Debenedetti, i fratelli Rosselli) ma non nasconde la forma di assimilazione più paradossale attuata dagli ebrei italiani, la fascistizzazione che precedette la promulgazione delle leggi razziali. La storia, nel film, non appare lineare, ha anse impreviste, curve accidentate, ci prende in contropiede come le pellicole di famiglia dove, nel 1941, Marina nota l’estrema magrezza dei genitori e ci mostra il padre che parodia Mussolini, eppure l’atmosfera del filmato resta la stessa delle altre pellicole amatoriali di cui Le valigie della storia è intessuto, una festosa e reiterata messa in scena, promossa e orchestrata da Simone, della numerosa famiglia ebrea romana che si lascia ritrarre in movimento, in bianco e nero, senza sonoro: le persone sfilano davanti ai nostri occhi, ci interpellano con ripetuti sguardi in macchina, eppure, in un certo senso, “nascondono” la storia. La protagonista invece non cela le sue emozioni, anche lei fissa la videocamera di Faccini ed esprime indignazione davanti alle proprie pagelle scolastiche rilasciate da un istituto privato (sezione ebraica), perché dopo il 1938 gli ebrei non erano ammessi nella scuola pubblica: il giudizio “lodevole” assegnatole in storia fascista è un segnale anticipatore della violenza che si sta per abbattere sul mondo.
Solo uno sguardo ravvicinato sulla storia può restituire un senso compiuto ai ricordi. «Allora non sapevo che» è un’espressione ricorrente dell’io narrante dal momento che la bambina ignora perché viene rinchiusa in uno scantinato e perché riceve dal padre l’unico schiaffo della sua vita quando chiede di uscirne, come le era sconosciuto il motivo del lungo viaggio del padre negli Stati Uniti nel 1938, da lei vissuto come un insopportabile abbandono: Simone stava tentando, senza successo, di portare la famiglia in salvo in America. I tedeschi sono l’orco che strappò la ragazzina agli affetti e alle gioie quotidiane per due «lunghissimi anni». Il momento gioioso della liberazione di Roma nel giugno del 1944 è contrappuntato dalla rievocazione delle stragi naziste in Toscana nei mesi che seguirono, commentate dalle immagini dei corpi scempiati, dalla storia di don Michele Rabino, dal ricordo dei ventiquattro bambini uccisi a San Fiorenzo Monti: sul tronco dei castagni che assistettero alla loro morte Marina appende i loro nomi e l’età in cui furono uccisi; infine rievoca la vergogna dell’amnistia, annuncia la nascita della Repubblica nel 1946 come «la vita nuova», mostra Chaplin che parodia Hitler ne Il grande dittatore (1940) e annuncia la sua successiva «ossessione», il pericolo atomico. Però ci sono anche i fatti privati: le immagini amatoriali di lei, bellissima, in abito da sera, sul piroscafo che la porta, ormai ventenne, negli Stati Uniti. Commenta: «Sembrava che dovessi andare a conquistare il mondo». Nota: «Passavo al cinema giornate intere». Chiosa: «Era tutto nuovo nel ’55». Fra luci e ombre («I locali dove gli ebrei non potevano entrare erano moltissimi… Io mi dichiaravo comunista con grande terrore dei miei, c’era il maccartismo, la caccia alle streghe») quel viaggio lascia un segno.
Bisogna tornare indietro per rintracciare le ragioni di una scelta di vita. Marina sta riguardando una bobina Pathé Baby del 1946 che mostra la sua famiglia scampata alla Shoah. Il viaggio a New York, dice, l’ha aiutata a distaccarsene, l’ha spinta a vivere una vita diversa. Cronista per il quotidiano «Il paese» diretto da Tommaso Smith, studia inglese e russo e diviene traduttrice. Poi tenta la strada del cinema professionale, chissà se indotta – si chiede – dal padre che tante volte aveva preso in mano la cinepresa per mettere in scena amici e parenti. Eppure, dice rivolta alla videocamera di Faccini, lei non ha mai smesso «di occuparsi della presenza ebraica nella storia e nella cultura del nostro Paese». Rievoca la strage di via Rasella, osserva in soggettiva le pietre d’inciampo romane dedicate agli ebrei sterminati nei campi e ricorda membri della sua famiglia uccisi dai nazisti. Il viaggio continua. Ora si reca in visita al memoriale di Fossoli, tappa verso la Germania dei deportati italiani, e nel castello che a Carpi ospita il Museo Monumento al Deportato politico e razziale legge alcuni dei quindicimila nomi riprodotti sui muri.
Ultraottantenne, pedinata dalla videocamera del marito (come insegnava Zavattini), compie un viaggio in treno ad Auschwitz. È in questo momento che l’interrogativo di fondo, la dialettica fra memoria e storia, diventa un dialogo a due: compare la voce off di Faccini mentre il suo dispositivo esplora i giacigli, i lavatoi, le valigie dei deportati, le rovine dei forni crematori. Marina ricorda «l’ultimo inganno, un sapone e l’asciugamano per la doccia». A Cracovia, tra folklore locale e turismo di massa, una giovane guida turistica partecipa alle riflessioni comuni, dice: «Liberarsi della storia… magari ci mettiamo tutta una vita per liberarci dalla nostra storia». La incalza in voce off Faccini: «Io sono convinto dell’inverso, che bisogna portare tutta la vita le valigie della storia, che sono pesantissime, guai a depositarle». Puntualizza la ragazza: «Io dico liberarsi per la propria creatività, per poter andare avanti, ricordando la storia». Bisogna «imparare a vivere con la storia», conclude il regista.
Seduta a un bar Marina, ripresa in primissimo piano, racconta ciò che ha visto e provato, si sofferma sulla sconvolgente presenza degli oggetti d’uso dei deportati. «È importante che queste cose vengano conservate, curate, mantenute». Le valigie con i nomi dei proprietari segnati sul dorso le fanno incrinare la voce: «Questo è un viaggio verso una fine sconosciuta, se mettevi il nome sulla valigia significava che ti sarebbe riservita, e invece la valigia è rimasta lì e la persona è divenuta cenere». Nonostante gli orrori e il dolore, guardando in macchina con i suoi sfolgoranti occhi azzurri Piperno conclude: «Ho sempre voglia di essere parte attiva, di raccontare, di battermi».
Prova ne è che siede di nuovo al computer per leggere a voce alta, «con estrema ripugnanza», un passo sull’eugenetica dal Mein Kampf di Hitler. Si tratta di un altro passaggio logico nella sua riflessione. Eppure sono esistiti gli eroi. Così rievoca il film da lei prodotto ispirato alla storia vera del disertore tedesco Rudolf Jacobs. In questo ultimo passaggio appare più cogente il legame con la cinécriture di Varda: Marina alla guida, elegantissima, vestita di rosso, parla dei partigiani di Carrara, poi raggiunge in treno Marzabotto, e qui a parlare è il Cinegiornale della Pace di Zavattini.
Nelle immagini professionali in bianco e nero girate nel 1963 un sopravvissuto, nel luogo dove la
strage è stata compiuta, rievoca quando si era chiesto dove fosse finita la testa della sua bambina.
L’ultima meta del viaggio è Sarzana. Qui una lapide ricorda la diserzione di Jacobs, il suo arruolamento con i partigiani. Davanti alla televisione Marina commenta un servizio giornalistico tedesco su di lui e ricorda l’incontro con il figlio del capitano Jacobs che le ha rivelato le origini ebraiche di sua nonna. Interrogata da Faccini sui sentimenti che prova di fronte a questa notizia Piperno conclude: «Indifferente non mi è, anzi, in qualche misura ne sono orgogliosa perché mi ricorda di tutti gli ebrei dissidenti che ci sono stati nella storia del mondo (…) mai come adesso per me è così importante».
Sì, Le valigie della storia è un film importante. Per il suo metodo compositivo, si è detto, nutrito della teoria e della prassi del cinema moderno europeo che rivive in questo film «fuori norma», come lo avrebbe definito Adriano Aprà, e per Marina Piperno che, alla soglia dei novant’anni affronta implicitamente, con questi argomenti e senza indugio, la crisi geopolitica del nostro presente. Vuole mostrare il suo io che diventa noi, desidera proiettare il film nelle università, intende “parlare tanto di sé”, parafrasando Zavattini, in un momento di nuovo cruciale per la storia e per la cultura ebraica. Raccontarsi per parlare al mondo.